Creuza de mä[1][7][8][9][10][11], è l'undicesimo album in studio del cantautore italiano Fabrizio De André, realizzato in collaborazione con Mauro Pagani e pubblicato nel 1984 dall'etichetta Dischi Ricordi.[N 1] È interamente cantato in genovese, per molti secoli una delle principali lingue impiegate nell'ambito della navigazione e degli scambi commerciali nel bacino del Mediterraneo, in particolare dal basso Medioevo al XVII secolo.
Creuza de mä album in studio | |
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Artista | Fabrizio De André |
Pubblicazione | marzo 1984 |
Durata | 33:29 |
Dischi | 1 |
Tracce | 7 |
Genere | Musica d'autore Folk rock Musica etnica World music |
Etichetta | Dischi Ricordi |
Produttore | Mauro Pagani, Fabrizio De André |
Arrangiamenti | Mauro Pagani |
Registrazione | Felipe Studio, Milano Stone Castle Studios, Carimate |
Velocità di rotazione | 33 giri |
Formati | LP[1] |
Altri formati | CD, MC |
Note | L'album e la canzone Creuza de mä si aggiudicano la Targa Tenco. |
Certificazioni originali | |
Dischi d'oro | ![]() (vendite: 100 000+) |
Certificazioni FIMI (dal 2009) | |
Dischi d'oro | ![]() (vendite: 25 000+) |
Fabrizio De André - cronologia | |
Album precedente (1981) Album successivo
(1986) |
Recensioni professionali | |
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Recensione | Giudizio |
Ondarock | Pietra miliare |
AllMusic[4] | ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
Piero Scaruffi[5] | 7/10 |
Il dizionario del pop-rock[6] | ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
Il disco è stato considerato dalla critica come una delle pietre miliari della musica degli anni ottanta e, in generale, della musica etnica tutta; David Byrne ha dichiarato alla rivista Rolling Stone che Creuza è uno dei dieci album più importanti della scena musicale internazionale del decennio,[12] e la rivista Musica e Dischi lo ha eletto migliore album degli anni ottanta.[13] Inoltre, l'album è nella posizione numero 4 della classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre, secondo Rolling Stone Italia.[14]
Intorno alla metà degli anni ottanta, la scelta di realizzare un disco di musica d'autore destinato al mercato nazionale interamente in lingua ligure andava contro tutte le regole del mercato discografico (all'epoca non vi era mai stato un album di un artista di tiratura medio-alta cantato in una lingua locale) e, contro ogni aspettativa, ha segnato il successo di critica e di pubblico dell'album, il quale ha infatti segnato una svolta nella storia della musica italiana ed etnica in generale.
De André ha deciso di utilizzare il ligure non solo perché lingua a lui familiare, in quanto parlata nelle sue terre, ma anche perché riteneva che rappresentasse un misto di parole derivanti da lingue diverse, facendo perno sull'enorme "malleabilità" ed eterogeneità di questo idioma, che, in diversi secoli di commerci, scambi e viaggi internazionali di cui il popolo ligure è stato protagonista, si è arricchito di numerosissime parole provenienti da lingue quali greco, arabo, spagnolo, francese, inglese ed altre[15].
Al centro dei testi vi sono i temi del mare e del viaggio, le passioni, anche forti, e la sofferenza altrettanto forte; questi temi vengono espressi anche sul piano musicale, tramite il ricorso a suoni e strumenti tipici dell'area mediterranea e l'aggiunta di contenuti non musicali registrati in ambienti portuali e/o marinareschi, come le voci registrate dei venditori di pesce al mercato ittico di Piazza Cavour a Genova[16]. Il titolo dell'album e della canzone principale fa riferimento alla crêuza (spesso erroneamente italianizzato con l'inesistente “crosa”), termine che in genovese indica una stradina collinare (con struttura simile ai famosi caruggi, che però sono perlopiù urbani), spesso sterrata o mattonata, in pendenza, delimitata da mura, e che porta in piccoli borghi, sia marinareschi che dell'immediato entroterra.
In questo caso però crêuza di mare si riferisce poeticamente ed in maniera allegorica ad un fenomeno meteorologico del mare altrimenti calmo che, sottoposto a refoli e vortici di vento, assume striature argentate o scure, simili a fantastiche strade da percorrere come vie, crêuze de mä appunto, per intraprendere dei viaggi, reali o ideali.
Nell'edizione rimasterizzata del 2014 la grafia utilizzata è Crêuza de mä, ma in quelle successive è ritornata la grafia Creuza de mä, per esempio nel 2016[17], nel 2017[18] e in quella limitata e numerata del 2018[19]
L'album è stato reinterpretato per intero nel 2004 da Mauro Pagani, che ne ha rinnovato gli arrangiamenti: oltre alle tracce già presenti nel disco originale, in 2004 Creuza de mä[20] sono contenute anche Al Fair, introduzione vocalizzata nello stile dei canti sacri della Turchia, Quantas Sabedes, Mégu Megùn (già incisa da De André su Le nuvole) e Neutte, ispirata dal poeta greco Alcmane.
«umbre de muri, muri de mainæ / dunde ne vegnî, duve l'é ch'anæ?» |
(F.De André-M.-Pagani, da Creuza de mä) |
Creuza de mä (questa è la grafia riportata sia nella copertina[1] sia nell'interno, dove vi è il testo del brano[1]; il titolo depositato in SIAE risulta essere invece Creusa de ma[21]) è la canzone d'apertura e dà il titolo all'album.
Come già accennato, la locuzione ligure crêuza de mä, nel genovesato, definisce un viottolo o mulattiera, talvolta fatto a scalinata, che abitualmente delimita i confini di proprietà privata e collega (come del resto fa la maggior parte delle strade in Liguria) l'entroterra con il mare. La traduzione letterale è quindi "viottolo di mare" o, utilizzando un ligurismo, "crosa di mare".
Il testo parla dei marinai che, tornati dal mare, poeticamente descritto come un posto dove la Luna si mostra nuda (cioè non ombreggiata da colline, piante o case) e dove la notte ha puntato il coltello alla gola, vanno a mangiare alla taverna dell'Andrea, alla fontana dei colombi nella casa di pietra, e pensano a chi vi potrebbero trovare: gente di Lugano poco raccomandabile (cioè contrabbandieri svizzeri) e ragazze di buona famiglia.
Il brano è incentrato sulla figura dei marinai e sulle loro vite da eterni viaggiatori, e racconta appunto di un ritorno notturno dei marinai a riva, quasi come estranei. De André parla delle loro sensazioni, narra le esperienze provate sulla loro pelle, la crudezza d'essere in balìa reale degli elementi; affiora poi una ostentata e scherzosa diffidenza, che si nota nell'assortimento dei cibi immaginati, accettabili e normali (o quasi, per un vero marinaio), contrapposti ad altri, come le cervella di agnello o il pasticcio di "lepre dei coppi" (il gatto, spacciato per una sorta di coniglio), decisamente e volutamente non accettabili, citati evidentemente per fare ironia sulla affidabilità e saldezza dell'Andrea (riguardo al quale viene sottolineato che non è un marinaio) e, forse, di tutto un mondo a cui sanno di non appartenere.
"E 'nt' a barca du vin ghe navighiemu 'nsc'i scheuggi" (E nella barca del vino navigheremo [anche] sugli scogli) "finché u matin... bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä" (finché il mattino... padrone della corda marcia d'acqua e di sale") con quella corda finirà per legarci e riportarci al mare [al nostro destino] lungo una crêuza de ma.
Per quanto riguarda la struttura musicale, il brano segue un tempo di 4/4 per le strofe che cambia a 5/4 e 6/4 nei ritornelli e negli intermezzi strumentali.
Nell'agosto 2020 è stata realizzata una nuova versione del brano, cantata da numerosi interpreti italiani, su iniziativa di Dori Ghezzi, vedova di De André (scomparso nel 1999), appositamente per la cerimonia di inaugurazione, a Genova, del viadotto autostradale Genova San Giorgio, costruito in sostituzione del precedente viadotto Polcevera, crollato due anni prima provocando 43 vittime.
Tra le canzoni più cariche di sensualità di Fabrizio De André, è un vero e proprio inno o elogio all'erotismo, impersonato dalla "lupa di pelle scura" Jamin-a, donna del porto desiderio amoroso dei marinai, capace di fare l'amore in modo travolgente e quasi insaziabile.
«... Jamin-a non è un sogno, ma piuttosto la speranza di una tregua. Una tregua di fronte a un possibile mare forza otto, o addirittura ad un naufragio. Voglio dire che Jamin-a è un'ipotesi di avventura positiva che in un angolo della fantasia del navigante trova sempre e comunque spazio e rifugio. Jamin-a è la compagna di un viaggio erotico, che ogni marinaio spera o meglio pretende di incontrare in ogni posto, dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto» |
(Fabrizio De André[22]) |
Il brano è il canto di dolore di un padre di fronte alla morte violenta, a causa della guerra, del proprio giovane figlio, travolto da un carro armato.
"Sidún" è in genovese la città di Sidone, in Libano, teatro, all'epoca della stesura del disco, di ripetuti massacri durante la guerra civile che sconvolse il paese (campo di battaglia di Siria e Israele) dal 13 aprile 1975 fino al 1991. A farne le spese fu in massima parte la popolazione civile, soprattutto i numerosissimi rifugiati palestinesi.
La canzone è introdotta dalle voci registrate di Ronald Reagan e Ariel Sharon, rispettivamente il presidente degli Stati Uniti ed il ministro della difesa di Israele dell'epoca, e dal rumore dei carri armati.[23]
«Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti da latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostituibile ricchezza. La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo, bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.» |
(Fabrizio De André[22]) |
La canzone fa riferimento alla vicenda storica del visconte Scipione Cicala, o Cigala (Çigä in genovese), appartenente ad una nobile famiglia genovese, che fu catturato dai Mori durante uno scontro navale e in seguito, per aver salvato la vita al sultano, convertendosi all'islam e ripudiando le proprie origini, diventò prima fiduciario del sultano e poi Gran Visir, con il nome di Sinàn Capudàn Pascià. Il personaggio, pur vedendo tutta la sua vita trasformata, non cambia intimamente e, diventato importante dignitario, afferma che di fatto non molto è mutato nel flusso della sua vita, che continua erratica ed opportunista (evidenziata dall'allegoria del pesce che quando le cose vanno bene sta a galla e quando vanno male si nasconde sul fondo), con la sola variante di proseguire giastemàndo Momâ òu pòsto do Segnô ("bestemmiando Maometto al posto del Signore").
'A pittima[1] rappresentava, nell'antica Genova, la persona a cui i privati cittadini si rivolgevano per esigere i crediti dai debitori insolventi. Il compito della pittima era di convincere, con metodi più o meno leciti, i debitori a pagare; ancora oggi a Genova il termine dialettale pittima viene usato per indicare una persona insistente ed appiccicosa.[16]
«Il personaggio è la risultante di un'emarginazione sociale, almeno come io lo descrivo, dovuta principalmente alle sue carenze fisiche. "Cosa ci posso fare se non ho le braccia per fare il marinaio, se ho il torace largo un dito, giusto per nascondermi con il vestito dietro ad un filo": questo è il lamento di chi è stato costretto da una natura tutt'altro che benevola a scegliersi, per sopravvivere, un mestiere sicuramente impopolare. [...] Così ho immaginato la mia pittima, come un uccello che non riesce ad aprire le ali, ed è destinato a nutrirsi dei rifiuti dei volatili da cortile.» |
(Fabrizio De André[22]) |
«Fabrizio: Lì è stata la forza di Pagani: "Adesso scrivo un pezzo alla De André", e ti esce fuori con "Â duménega". |
(Fabrizio De André e Mauro Pagani, riguardo alla musica di "Â duménega"[24]) |
Al pezzo, suonato a ritmo di ballata popolare, contribuisce il mandolino di Franco Mussida, chitarrista della Premiata Forneria Marconi; di Mussida è anche l'assolo di chitarra andalusa alla fine del brano.
Il brano racconta in maniera ironica il "rito" della passeggiata che un tempo, nella città di Genova, era concessa ogni domentica alle prostitute, per tutta la settimana relegate a lavorare in un quartiere della città. De André riporta le scenate dei cittadini al passaggio di queste prostitute e descrive le reazioni dei vari personaggi, tutti accomunati dall'incoerenza e dal finto moralismo: da chi di domenica grida loro qualsiasi epiteto sconcio e invece durante la settimana le frequenta, al direttore del porto, che è felice perché tutto quel ben di Dio a passeggio porta tanti soldi nelle casse del Comune, finanziando la costruzione di un nuovo molo (sembrava infatti che il Comune di Genova con i ricavi degli appalti delle case di tolleranza riuscisse a coprire per intero gli annuali lavori portuali[16]), ma le insulta comunque "per coerenza", al rozzo bigotto che, per legge di contrappasso, sbraita contro le prostitute e sembra essere l'unico a non accorgersi che fra di loro c'è anche sua moglie.
Il brano chiude idealmente il discorso sull'eterno viaggiare dei marinai aperto ad inizio album con "Crêuza de mä". Il protagonista è un marinaio al momento della partenza per un nuovo viaggio, che saluta con un triste canto d'addio l'innamorata che lo guarda dal molo e la sua città, Genova.
«Quando un navigante abbandona la banchina del porto della città in cui vive arriva il momento del distacco dalla sicurezza, dalla certezza, sotto specie magari di una moglie, custode del talamo nuziale, agitante un fazzoletto chiaro e lacrimato dalla riva; il distacco dal pezzetto di giardino, dall'albero del limone, e, se il navigante parte da Genova, sicuramente dal vaso di basilico piantato lì sul balcone [...] . |
(Fabrizio De André[22]) |
Crêuza de mä ha ottenuto recensioni entusiastiche da parte della critica e della stampa specialistica. In un dizionario dedicato agli album pop e rock, ove l'album ha ottenuto una valutazione pari a cinque stelle su cinque, viene dichiarato che si tratta "probabilmente la massima opera realizzata in Italia nel campo della Canzone". La recensione dedicata al disco si conclude asserendo che si tratta di un "capolavoro assoluto, le cinque stelle non bastano".[6]
AllMusic assegna una valutazione molto alta all'album, e riporta che si tratta un'opera "curiosa e affascinante" ove "strumenti all'avanguardia si fondono al cantato mistico ed elegante di De André, a più di un po' di canti marinareschi e a un tocco di mediterraneità".[4]
Crêuza de mä è anche uno degli album pubblicati negli anni ottanta preferiti di David Byrne.[4]
Testi di Fabrizio De André; musiche di Mauro Pagani.
Durata totale: 17:33
Durata totale: 15:56
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