Due anni dopo è il secondo album di Francesco Guccini, uscito nel 1970, che sulla copertina del disco continua a figurare semplicemente come "Francesco".
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Due anni dopo album in studio | |
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Artista | Francesco Guccini |
Pubblicazione | gennaio 1970 |
Durata | 40:44 |
Dischi | 1 |
Tracce | 12 |
Genere | Musica d'autore |
Etichetta | EMI, 3C064-17278 |
Arrangiamenti | Giorgio Vacchi |
Velocità di rotazione | 33 giri |
Formati | LP |
Francesco Guccini - cronologia | |
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Tutte le canzoni sono dello stesso Guccini; la chitarra acustica è suonata (oltre che dallo stesso Guccini) da Deborah Kooperman.
Una canzone sull'amore di due giovani che, inizialmente, riescono a sconfiggere la routine di tutti i giorni che una lunga storia può comportare (i silenzi riempiti da sospiri); ma poi la vita di coppia perde inevitabilmente la sua poesia per essere inglobata nella noia (i silenzi riempiti da pensieri pieni d'ira).
La canzone narra delle rivolte scoppiate a Praga, del giovane Jan Palach che si diede fuoco sulla piazza vecchia (morendo tra le fiamme per difendere la libertà dell'uomo come già era accaduto a Jan Hus, condannato al rogo a Costanza 550 anni prima) e della speranza che questa rivolta portò in quanti in occidente militavano nei partiti comunisti.
Una giornata tediosa trasformata in una deliziosa poesia, summa della cultura gucciniana non è esente da citazioni ungarettiane e sensismo dannunziano; già incisa due anni prima dai Nomadi.
Dura critica al sistema emotivo borghese e alle sue convenzioni. Descrive una festa di compleanno sottolineando anche i problemi adolescenziali: le prime delusioni amorose.
Con questa canzone (ispirata ad una poesia di Edgar Lee Masters) Guccini immagina un'ipotetica sepoltura che desidererebbe sotto un grande albero; l'albero è il simbolo della continuità della vita e il pensiero che le sue radici assorbano la salma che vi sta ai piedi sembrano rendergli nuova vita e completa simbiosi con la natura nonché un innalzarsi quasi prepotente, come scrive lo stesso autore, "verso quel cielo che chiaman di dio".
Summa assoluta di un vissuto giovanile deludente: sono gli anni di Modena. In attesa di trasferirsi a Bologna (Canzone omonima nell'album Metropolis) e reduce da Pavana (di cui si narra anche in Radici dall'album omonimo e soprattutto in Amerigo: «Pavana un ricordo lasciato tra i castagni») racconterà tale periodo anche in Piccola Città dall'album Radici. Il testo è di stampo crepuscolare.
Solitarie e malinconiche visioni campestri in una città arsa dalla calura estiva che dal nichilismo risalgono a "cogliere un po' di verità". Quella verità mai totalmente afferrabile, ma sempre quantomeno intuibile sotto la polvere di immagini che ricalcano la quotidianità.
Per il ciclo delle canzoni notturne una ballata metropolitana amara trasudante smog, alcool e delusione; anche questa già incisa due anni prima dai Nomadi.
Canzone suggestiva e profondissima in cui la crisi del rapporto con la futura moglie Roberta - in seguito alla quale ed all'innamoramento per una sua allieva americana, Eloise Dunn (alla quale anni dopo dedicherà 100, Pennsylvania, ave), Guccini lascerà per sei mesi l'Italia (e Roberta) per gli Stati Uniti - è il pretesto per un viaggio introspettivo che ci parla delle gioie taciute e delle lacrime trattenute, della necessità di crescita interiore dell'autore che contrasta con il soddisfacimento per la propria condizione della compagna, che scambia le sue ansie per sintomi di tradimento perpetrato o desiderato ("Non cercare in un viso la ragione, in un nome la passione che lontano ora mi fa").
Ispirandosi ad una poesia di Arthur Rimbaud dallo stesso titolo, descrive la morte del personaggio shakespeariano (Ophelia, nell'Amleto, si annega dopo essere impazzita). Anche questa canzone era già stata interpretata due anni prima dai Nomadi. Canzone dalle parvenze quasi metafisiche, Ophelia è uno dei capolavori di questo album.
La canzone prelude a pietre miliari come Canzone delle osterie di fuori porta. Ballata popolaresca, narra con delicatezza la serata di un alcolista; è stata ispirata dallo scrittore Charles Bukowski.
Si tratta di una trasposizione in dialetto modenese degli stereotipi del blues degli schiavi afroamericani (il titolo stesso è una possibile traduzione dell'inglese blue, e significa il triste, ma il vocabolo nei dialetti emiliani ha anche la connotazione di incapace, poco atto allo scopo, di cattiva qualità). Gli stilemi del blues originale vengono ricondotti, quasi mai letteralmente ma in modo sostanzialmente corretto e fedele all'originale, agli elementi della cultura contadina e paesana: la primavera secondo il calendario, anche se fuori piove a dirotto; il non potere uscire a spasso con l'amata anche se è domenica perché non si ha il vestito nuovo (il vestito della festa, importantissimo nella tradizione popolare contadina); il padre dell'amata che chiede al protagonista quando si deciderà a sposarla; la madre dell'amata che gli comunica che lei l'ha lasciato per uno più ricco di lui (tér andéda via con un ch'al gh'à più sòld che mé, che significa eri andata via con uno che ha più soldi di me); e infine il protagonista che cammina da solo lungo la strada completamente bagnato come un pulcino per la pioggia.
Della canzone esiste una versione, uscita sempre nel 1970, in genovese cantata da Michele.
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